martedì 25 maggio 2010

Brutti, sporchi e cattivi - L'eredità del colonnello, di Carlos Trillo e Lucas Varela


Elvio Guastavino è matto come un cavallo. Ed è un laido, viscido pezzo di merda. Così che quando crepa spalmato sul selciato, dopo essersi gettato dalla finestra di casa sua nel delirio di un accesso di follia, il lettore reprime con difficoltà un moto di piacere.

Non che sia tutta colpa di Elvio. Certo la sua bella predisposizione doveva averla, Elvio, ma a ritrovarsi come genitori il capitano Aaròn Guastavino e doña Georgina Iturbide de Guastavino quel che potrà andare storto ci andrà.

Pii e timorati di dio, papino e mammina sono lui uno dei soldati macellai della giunta Videla, e lei la sua in tutto degna moglie. Papino, per il trionfo dei valori patrii e cristiani è disposto al sacrificio di portarsi il lavoro perfino a casa: cioè a torturare a domicilio una giovane ragazza. Oltre a violentarla sistematicamente. Mammina farà la pelle a papino perché ha tradito il santo vincolo del matrimonio con quella donnaccia: l’avesse soltanto torturata… O almeno si fosse limitato a farsi gli affari suoi solo sul posto di lavoro. Ecco, l’ambiente familiare di Elvio era questo, per intendersi.
Cosa non fa fare l'amore!

Da tali lombi non poteva che venire un uomo di specchiata moralità cristiana: innamorato di una bambola di porcellana, con la quale parla e sogna di fare sesso.

Siamo dalle parti del racconto grottesco e della ricostruzione storica, come si vede. Ma Carlos Trillo, qui in forma smagliante, raramente si accontenta di fornire letture immediate. Storia e grottesco, un humour nero devastante, sono il contenitore approntato dallo scrittore argentino per questa che ancor più è una discesa freudiana nei meccanismi della psiche individuale e delle dinamiche familiari.

La psicologia devastata di Elvio si specchia nella casa dove abita con mammina. Quella casa dove mammina tirerà le cuoia quando verrà a farle visita la ragazza a suo tempo brutalizzata dal marito; dove, fino ad allora, mammina, ormai paralitica, imputridisce per le piaghe da decubito, è costretta a riposare tra i suoi escrementi, mangia una patata di numero per cena e salta la colazione. Quella casa dove gli scarafaggi corrono liberi tra resti di cibo, rifiuti vari e chiazze di vomito. Tutto perché Elvio deve risparmiare ogni centesimo per riscattare Luisita. Luisita, ovviamente, è la bambola. Un pezzo d’antiquariato austriaco del XIX secolo di proprietà del negoziante Aaròn, Chupnik. Giorno e notte, in ogni momento libero dal lavoro e dalla scarsissima cura che si prende di mammina, Elvio corre alla vetrina del negozio di Chupnik per rimirare la sua Luisita. E si parlano. Lui si strugge e lei lo pressa. Lo minaccia di tradirlo con il pagliaccio o con il soldato che sono in vetrina insieme a lei, se Elvio non si spiccia a liberarla di lì. Discesa freudiana, dicevo; il fatto è che papino era un macellaio assai coscienzioso: a casa, in un armadio, aveva tutto un set di attrezzi per la tortura e un paio di bambole sulle quali fare pratica di tortura prima di applicarsi su uomini e donne. Elvio, da adolescente, si mostrava in tutto all’altezza di papino; almeno in quanto a follia: si eccitava di brutto a vedere il capitano Aaròn Guastavino accanirsi sulle bambole con tenaglie, spilloni, pungoli elettrici per il bestiame. E quando papino deciderà che è ora che il pupo si erudisca e lo lascia solo in casa con Analia, la ragazza torturata, Elvio la violenterà mettendole sul volto una maschera di carnevale da donna… la prima Luisita.

In questo suo El sindrome Guastavino (un titolo più pregnante di quello attribuitogli in sede di traduzione) non fa davvero uso di sottigliezze metaforiche o allegorica eleganza, Trillo. I paralleli sono tutti evidenti, tutti tesi a picchiare duro e non risparmiare alcuna sgradevolezza per suscitare indignazione, riflessione, comprensione dei fenomeni.

L’effetto deformante del grottesco, dell’iperbolico, dell’estremo, non ha qui intenti satirici immediati – la satira resta un sottoprodotto, senza dubbio atteso, di certo ben riuscito, ma non primario. L’aspetto che mi pare primario è quello della ricostruzione psicologica della follia, che da individuale si fa sociale, nazionale; e in subordine la ricostruzione storica che ne deriva. Al di là della sua repellente laidezza, Elvio è anche un malato. La sua tragica maschera fantozziana di ministeriale vessato dal superiore cela una personalità fragile devastata da una programmazione (im)morale e (a)sociale che affonda le sue radici nell’ossessione di base di ogni potere terrorizzato dal nuovo e dall’eterodosso: imporre il tranquillizzante (per sé) pensiero unico. Pensiero unico che in primo luogo significa repressione dei propri impulsi, dei propri sentimenti, delle proprie idee; impulsi, sentimenti e idee che, repressi e compressi, finiscono per sfogarsi nell’atrocità o nella follia. Elvio pare quasi riassumere la parabola dell’Argentina stessa: la sua pazzia, e il suo suicidio finale, sono gli stessi dell’Argentina del 1976-83; figli, gli uni e gli altri, delle idee di tutti i vari guastavini e le varie iturbide nei decenni precedenti. Trillo sembra dare un’interpretazione psicanalitica della storia argentina, rozza in apparenza, ma di raffinata struttura e rara efficacia. Rozza e per la voluta volgarità e perché la lettura che ci fornisce pare esprimere solo condanna senza una ricerca delle cause degli eventi storici. Ma se la volgarità è connaturata alla deformazione caricaturale, appuntandosi sui difetti per ingigantirli e sbeffeggiarli, e il suo unico dovere è di risultare efficace; la condanna emerge naturalmente dal rivelarsi di tutta la stupidità, l’assurdità delle cause. Tutte le scuse ideologiche, politiche cadono di fronte alla semplicità della difesa del proprio “diritto” a sopraffare l’altro. Ma peggio ancora dell’esercizio della sopraffazione conseguente alla pura occasione di poterlo fare. E Trillo lascia che siano la storia, le azioni dei personaggi a mettere in evidenza questa banalità delle cause.
Carlos Trillo

I disegni di Lucas Varela illustrano al meglio il racconto, ne sviscerano i risvolti psicologici e allegorici. Il suo tratto tra il grottesco puro e il segno “sporco” underground esalta le asprezze del testo trilliano con una resa visiva che non nasconde e anzi da pieno corpo alla volgarità necessaria a imprimere alla storia di Elvio tutta la sua forza dirompente, il vigore di una denuncia che è, prima e meglio, analisi umana. Sfila così sotto i nostri occhi un’umanità inquietante e terribilmente banale, i cui tratti grotteschi finiscono per essere molto più veri, molto più descrittivi che in un’opera realistica. Del resto Alberto Breccia in Perramus ha fornito forse la massima lezione in tal senso.   
Lucas Varela

Ma non c’è solo sfacelo, denuncia, analisi storica e psicanalitica, tragedia e pazzia ne L’eredità del colonnello. L’humour macabro, nero, di cui scrivevo all’inizio vena l’intero racconto. E non solo perché il disegno di Varela pone l’accento con facilità su questo che è uno dei capisaldi della poetica trilliana. E’ Trillo stesso a scrollarsi di dosso ogni rischio di pesantezza attraverso tale strumento. Abbiamo così non soltanto i “dialoghi” surreali di Elvio con le bambole e i suoi tragicomici intermezzi erotici con esse. Non soltanto certi suoi delirii onirici che paiono una deriva genetica delle poetiche fughe nel sogno del signor Lopez, il protagonista del capolavoro di Carlos Trillo e Horacio Altuna Las puertitas del señor Lopez. Forse il vertice del nero lo si raggiunge nella sottotrama del “corteggiamento” di Lucrecia da parte di Elvio.

A un certo punto Elvio pare aver perduto la sua Luisita: Aaron Chupnik vende la bambola a una vedova, Lucrecia Vanegas Mur che la compra per sua figlia Felicitas. L’incontro di Elvio con madre e figlia è travolgente: Felicitas è un mostriciattolo orribile che, sotto gli occhi di un Elvio in fibrillazione, brutalizza in ogni modo la bambola. Elvio è sconvolto ed eccitato dalla scena, e non riuscendo a farsi vendere la bambola per il fermo rifiuto dalla bambina si decide a corteggiare la vedova per potersi introdurre nel suo ménage familiare e vedere il da farsi. Ciò che seguirà è narrato e visualizzato da Trillo e Varela con arguzia e finezza pari al raccapriccio. Fino al capovolgimento finale, con la piccola aguzzina di bambole preziose che si rivela amorevole infermiera di bambole rotte dopo aver scambiato Luisita con Marieta, la bambola su cui papino si esercitava nella pratica della tortura, e che Elvio ha dovuto darle per riscattare il suo amore. Forse le ferite dell’Argentina possono rimarginarsi.

Serializzato sulla rivista Fierro nel 2008, L’eredità del colonnello è stato pubblicato in Italia nel 2009 da Coniglio Editore.

Ah, alla fine dei giochi Luisita tornerà, per quattro soldi, nelle mani di Chupnik. Forse la vita può andare avanti, nonostante i Guastavino.

Nessun commento:

Posta un commento