martedì 25 maggio 2010

Brutti, sporchi e cattivi - L'eredità del colonnello, di Carlos Trillo e Lucas Varela


Elvio Guastavino è matto come un cavallo. Ed è un laido, viscido pezzo di merda. Così che quando crepa spalmato sul selciato, dopo essersi gettato dalla finestra di casa sua nel delirio di un accesso di follia, il lettore reprime con difficoltà un moto di piacere.

Non che sia tutta colpa di Elvio. Certo la sua bella predisposizione doveva averla, Elvio, ma a ritrovarsi come genitori il capitano Aaròn Guastavino e doña Georgina Iturbide de Guastavino quel che potrà andare storto ci andrà.

Pii e timorati di dio, papino e mammina sono lui uno dei soldati macellai della giunta Videla, e lei la sua in tutto degna moglie. Papino, per il trionfo dei valori patrii e cristiani è disposto al sacrificio di portarsi il lavoro perfino a casa: cioè a torturare a domicilio una giovane ragazza. Oltre a violentarla sistematicamente. Mammina farà la pelle a papino perché ha tradito il santo vincolo del matrimonio con quella donnaccia: l’avesse soltanto torturata… O almeno si fosse limitato a farsi gli affari suoi solo sul posto di lavoro. Ecco, l’ambiente familiare di Elvio era questo, per intendersi.
Cosa non fa fare l'amore!

Da tali lombi non poteva che venire un uomo di specchiata moralità cristiana: innamorato di una bambola di porcellana, con la quale parla e sogna di fare sesso.

Siamo dalle parti del racconto grottesco e della ricostruzione storica, come si vede. Ma Carlos Trillo, qui in forma smagliante, raramente si accontenta di fornire letture immediate. Storia e grottesco, un humour nero devastante, sono il contenitore approntato dallo scrittore argentino per questa che ancor più è una discesa freudiana nei meccanismi della psiche individuale e delle dinamiche familiari.

La psicologia devastata di Elvio si specchia nella casa dove abita con mammina. Quella casa dove mammina tirerà le cuoia quando verrà a farle visita la ragazza a suo tempo brutalizzata dal marito; dove, fino ad allora, mammina, ormai paralitica, imputridisce per le piaghe da decubito, è costretta a riposare tra i suoi escrementi, mangia una patata di numero per cena e salta la colazione. Quella casa dove gli scarafaggi corrono liberi tra resti di cibo, rifiuti vari e chiazze di vomito. Tutto perché Elvio deve risparmiare ogni centesimo per riscattare Luisita. Luisita, ovviamente, è la bambola. Un pezzo d’antiquariato austriaco del XIX secolo di proprietà del negoziante Aaròn, Chupnik. Giorno e notte, in ogni momento libero dal lavoro e dalla scarsissima cura che si prende di mammina, Elvio corre alla vetrina del negozio di Chupnik per rimirare la sua Luisita. E si parlano. Lui si strugge e lei lo pressa. Lo minaccia di tradirlo con il pagliaccio o con il soldato che sono in vetrina insieme a lei, se Elvio non si spiccia a liberarla di lì. Discesa freudiana, dicevo; il fatto è che papino era un macellaio assai coscienzioso: a casa, in un armadio, aveva tutto un set di attrezzi per la tortura e un paio di bambole sulle quali fare pratica di tortura prima di applicarsi su uomini e donne. Elvio, da adolescente, si mostrava in tutto all’altezza di papino; almeno in quanto a follia: si eccitava di brutto a vedere il capitano Aaròn Guastavino accanirsi sulle bambole con tenaglie, spilloni, pungoli elettrici per il bestiame. E quando papino deciderà che è ora che il pupo si erudisca e lo lascia solo in casa con Analia, la ragazza torturata, Elvio la violenterà mettendole sul volto una maschera di carnevale da donna… la prima Luisita.

In questo suo El sindrome Guastavino (un titolo più pregnante di quello attribuitogli in sede di traduzione) non fa davvero uso di sottigliezze metaforiche o allegorica eleganza, Trillo. I paralleli sono tutti evidenti, tutti tesi a picchiare duro e non risparmiare alcuna sgradevolezza per suscitare indignazione, riflessione, comprensione dei fenomeni.

L’effetto deformante del grottesco, dell’iperbolico, dell’estremo, non ha qui intenti satirici immediati – la satira resta un sottoprodotto, senza dubbio atteso, di certo ben riuscito, ma non primario. L’aspetto che mi pare primario è quello della ricostruzione psicologica della follia, che da individuale si fa sociale, nazionale; e in subordine la ricostruzione storica che ne deriva. Al di là della sua repellente laidezza, Elvio è anche un malato. La sua tragica maschera fantozziana di ministeriale vessato dal superiore cela una personalità fragile devastata da una programmazione (im)morale e (a)sociale che affonda le sue radici nell’ossessione di base di ogni potere terrorizzato dal nuovo e dall’eterodosso: imporre il tranquillizzante (per sé) pensiero unico. Pensiero unico che in primo luogo significa repressione dei propri impulsi, dei propri sentimenti, delle proprie idee; impulsi, sentimenti e idee che, repressi e compressi, finiscono per sfogarsi nell’atrocità o nella follia. Elvio pare quasi riassumere la parabola dell’Argentina stessa: la sua pazzia, e il suo suicidio finale, sono gli stessi dell’Argentina del 1976-83; figli, gli uni e gli altri, delle idee di tutti i vari guastavini e le varie iturbide nei decenni precedenti. Trillo sembra dare un’interpretazione psicanalitica della storia argentina, rozza in apparenza, ma di raffinata struttura e rara efficacia. Rozza e per la voluta volgarità e perché la lettura che ci fornisce pare esprimere solo condanna senza una ricerca delle cause degli eventi storici. Ma se la volgarità è connaturata alla deformazione caricaturale, appuntandosi sui difetti per ingigantirli e sbeffeggiarli, e il suo unico dovere è di risultare efficace; la condanna emerge naturalmente dal rivelarsi di tutta la stupidità, l’assurdità delle cause. Tutte le scuse ideologiche, politiche cadono di fronte alla semplicità della difesa del proprio “diritto” a sopraffare l’altro. Ma peggio ancora dell’esercizio della sopraffazione conseguente alla pura occasione di poterlo fare. E Trillo lascia che siano la storia, le azioni dei personaggi a mettere in evidenza questa banalità delle cause.
Carlos Trillo

I disegni di Lucas Varela illustrano al meglio il racconto, ne sviscerano i risvolti psicologici e allegorici. Il suo tratto tra il grottesco puro e il segno “sporco” underground esalta le asprezze del testo trilliano con una resa visiva che non nasconde e anzi da pieno corpo alla volgarità necessaria a imprimere alla storia di Elvio tutta la sua forza dirompente, il vigore di una denuncia che è, prima e meglio, analisi umana. Sfila così sotto i nostri occhi un’umanità inquietante e terribilmente banale, i cui tratti grotteschi finiscono per essere molto più veri, molto più descrittivi che in un’opera realistica. Del resto Alberto Breccia in Perramus ha fornito forse la massima lezione in tal senso.   
Lucas Varela

Ma non c’è solo sfacelo, denuncia, analisi storica e psicanalitica, tragedia e pazzia ne L’eredità del colonnello. L’humour macabro, nero, di cui scrivevo all’inizio vena l’intero racconto. E non solo perché il disegno di Varela pone l’accento con facilità su questo che è uno dei capisaldi della poetica trilliana. E’ Trillo stesso a scrollarsi di dosso ogni rischio di pesantezza attraverso tale strumento. Abbiamo così non soltanto i “dialoghi” surreali di Elvio con le bambole e i suoi tragicomici intermezzi erotici con esse. Non soltanto certi suoi delirii onirici che paiono una deriva genetica delle poetiche fughe nel sogno del signor Lopez, il protagonista del capolavoro di Carlos Trillo e Horacio Altuna Las puertitas del señor Lopez. Forse il vertice del nero lo si raggiunge nella sottotrama del “corteggiamento” di Lucrecia da parte di Elvio.

A un certo punto Elvio pare aver perduto la sua Luisita: Aaron Chupnik vende la bambola a una vedova, Lucrecia Vanegas Mur che la compra per sua figlia Felicitas. L’incontro di Elvio con madre e figlia è travolgente: Felicitas è un mostriciattolo orribile che, sotto gli occhi di un Elvio in fibrillazione, brutalizza in ogni modo la bambola. Elvio è sconvolto ed eccitato dalla scena, e non riuscendo a farsi vendere la bambola per il fermo rifiuto dalla bambina si decide a corteggiare la vedova per potersi introdurre nel suo ménage familiare e vedere il da farsi. Ciò che seguirà è narrato e visualizzato da Trillo e Varela con arguzia e finezza pari al raccapriccio. Fino al capovolgimento finale, con la piccola aguzzina di bambole preziose che si rivela amorevole infermiera di bambole rotte dopo aver scambiato Luisita con Marieta, la bambola su cui papino si esercitava nella pratica della tortura, e che Elvio ha dovuto darle per riscattare il suo amore. Forse le ferite dell’Argentina possono rimarginarsi.

Serializzato sulla rivista Fierro nel 2008, L’eredità del colonnello è stato pubblicato in Italia nel 2009 da Coniglio Editore.

Ah, alla fine dei giochi Luisita tornerà, per quattro soldi, nelle mani di Chupnik. Forse la vita può andare avanti, nonostante i Guastavino.

lunedì 24 maggio 2010

Sospiri d'amor antichi io narro... - Il Padiglione dell'Ala Ovest, di Sun Jiayu e Guo Guo, dal dramma di Wang Shifu


In questo racconto ammiriamo tutto il candore e tutta la semplicità della storia d’amore perfetta; resi concreti – ed eterei – dallo splendore calligrafico dei disegni di Guo Guo (pseudonimo di Guo Chaoxu), capace di tradurre in immagini di eleganza e di finezza introspettiva la psicologia, le emozioni dei personaggi. Ventiquattrenne all’epoca della pubblicazione originale dell’opera, nel 2007, la giovane disegnatrice mostra una sicura padronanza della composizione delle tavole, ariose e luminose, e un disegno tanto ornato e ricco di dettagli quanto narrativo e in grado di far entrare il lettore nelle pieghe della narrazione. I colori sono caldi, un trionfo di sfumature del rosso, del marrone, del verde, del giallo e dell’azzurro; donano una vivacità soffusa ma decisa anche laddove sono più tenui; il tratto cesellato ma dotato di una naturale fluidità nelle scene dinamiche esalta questa impressione di vitalità rendendo briose anche quelle scene dove prevale il tono del dramma oppure un languore prossimo all’estenuazione. Il lavoro sulla figura e l’espressione umane mostra l’accuratezza nella ricerca di quella caratterizzazione psicologica cui accennavo.

Il manhua di Il padiglione dell’ala ovest è l’adattamento del dramma Xixiang Ji, un’opera del teatro classico cinese scritta dal drammaturgo del XIII secolo Wang Shifu sulla base di un racconto risalente ad alcuni secoli prima.  Sun Jiayu ne ha curato l’adattamento dei testi per il fumetto, cambiando alcuni dei nomi dei personaggi. Il racconto che ne esce trasmette, in un riuscito caleidoscopio, sia la freschezza dei sentimenti dei due giovani innamorati, Chen il letterato sognatore e Ye Pian Pian la figlia del dignitario di provincia, sia quell’universo complesso che era (come è anche oggi) la società cinese, regolata da costumi, leggi, rapporti sociali e di forza, consuetudini culturali, tutti e tutte elaborati - e alieni e bizzarri ai nostri occhi (e alieni e bizzarri perché non nostri).
                       Guo Guo                                                                        Sun Jiayu                                      

Gli eventi narrati si situano in epoca Tang (618-907 d.C.) nella città di Pu Zhou, in una delle innumerevoli province della Cina. Pian Pian, bellissima figlia di un funzionario imperiale è ammirata da tutti i giovani della popolazione del luogo. Un’ammirazione che avviene da lontano, quasi l’ammirazione che si tributa a un essere favoloso, del mito. Ma anche un’ammirazione popolaresca e sanguigna. In occasione di una festività che deve celebrarsi al tempio locale, e alla quale è attesa la partecipazione di Pian Pian, giunge nella cittadina Chen. Il giovane sembra lasciarsi vivere, trascinarsi con apatia in seguito alla delusione patita a causa dell’amore per la figlia di un potente segretario imperiale, una ragazza poi rivelatasi in tutta la sua superficialità e crudeltà. Poiché da cosa sempre nasce cosa, l’incontro fortuito tra Chen e Pian Pian farà nascere l’amore tra i due giovani.
 Il fatale incontro è vicino...

In questa prima parte, e fino alle iniziali schermaglie d’amore tra i protagonisti, il lettore (occidentale) ha modo di entrare in quella dimensione aliena che è la Cina _ tanto più quella di un millennio abbondante fa. La storia descrive con semplicità questa Cina e le sue convenzioni, i rituali sociali, da quelli più spiccioli alle dinamiche di casta e politiche e al corteggiamento; tutto emerge con naturalezza, dalle parole quotidiane e dai gesti dei personaggi. Il disegno visualizza quanto il lettore viene leggendo; la ricca scenografia e il segno cesellato e prezioso creano un’atmosfera che sfuma il racconto storico nella fiaba d’amore e lo precipita poi nel dramma turbinante di emozioni. Perché naturalmente un dramma c’è, come è connaturato a ogni storia d’amore che si rispetti.

La bellissima Pian Pian, infatti, è prevedibilmente fidanzata sin dai primi anni della sua vita con il figlio di un alto burocrate imperiale, che vive lontano dalla cittadina della giovane. Il “Caso” vuole che il giovanotto in questione sia il fratello di quella Mingyan che ha spezzato il cuore di Chen ed è tanto bella quanto vana e malvagia. Tale sorella, tale fratello, è ovvio, e il promesso sposo di Pian Pian è un debosciato privo di ogni morale. Sin da queste premesse, il lettore occidentale si ritrova sotto i piedi un terreno più abituale. Riti, miti, convenzioni sono più simili, e riconoscibili come anche proprie. E così non manca nulla; alle difficoltà che già si presagiscono all’orizzonte per i due innamorati si somma l’irrompere sulla scena di una sorta di don Rodrigo: un generale, uno di quei tanti signorotti della guerra, giunge alla cittadina con l’intento di spadroneggiarvi, ma invaghitosi di Pian Pian minaccia il saccheggio se la ragazza non gli verrà data in sposa. La madre di Pian Pian la promette a chi la salverà dal predone. Siamo su un terreno a noi ancora più familiare: la principessa viene concessa al cavaliere che salverà la comunità dal drago (dall’orco, dal demonio…). Chen, seppure non con il brando ma con le risorse della sua intelligenza e risolutezza, salva principessa e castello.

E vissero felici contenti?

Non ancora. Qui scivoliamo di nuovo su un terreno per noi più infido. Almeno da Atalanta in poi (http://it.wikipedia.org/wiki/Atalanta_%28mitologia%29) la promessa di una principessa è debito. Ma non questa volta: passata la tempesta la signora mamma di Pian Pian rammenta il fidanzamento con il figlio del potente segretario imperiale. E poi Chen è di buona, anzi ottima famiglia, ma ha rinunciato alla carriera di mandarino per fare il letterato vagabondo. Insomma, mica è tanto affidabile, diamine.
Pian Pian

Lacrime, pettegolezzi più o meno velenosi sul depravato fidanzato di Pian Pian, su Chen e chissà cosa c’è stato tra lui e Mingyan. Segue, insomma, tutto l’armamentario che è d’uopo in questi casi.

Ma questo è un dramma, non una tragedia. Chen strappa la concessione di poter sposare la sua amata se si rimetterà sulla retta via, se cioè tornerà organico al sistema confuciano della burocrazia riuscendo primo agli esami per diventare funzionario imperiale. Dopo un’ulteriore serie di vicissitudini - perché come è ovvio Chen dopo il pieno successo agli esami si ammala sulla strada del ritorno suscitando dubbi e patemi in Pian Pian e nella signora madre - vissero effettivamente felici e contenti.
Una delle illustrazioni che intarsiano sontuosamente il racconto (Mingyan).

Come si vede, nell’apparente complessità, nella ricercata complicazione della trama, la storia è davvero molto semplice. Sentimenti grezzi, elementari, una storia d’amore classica. A fare la differenza è da un lato il vero e proprio splendore del disegno, che come scrivevo costruisce un perfetto scenario da fiaba e da melodramma insieme (e le fastose tavole illustrative che inframmezzano il racconto sembrano proprio trasportare il lettore su un palcoscenico). Disegno che permette alla recitazione dei personaggi di assumere concreto rilievo creando un contesto dove possono muoversi in modo realistico. Dall’altro lato vi è l’estrema attenzione con la quale Sun Jiayu ha saputo sottolineare i pudori e timori di Pian Pian e il suo coraggio e ardore; l’improntitudine della sua cameriera; i languori, dolori, ma anche la fierezza e la decisione di Chen; la sottigliezza e insieme la spudoratezza delle tare morali di Mingyan e suo fratello. Così come uguale cura è dedicata alle parti più descrittive del manhua, concorrendo a determinare l’atmosfera della storia, la sua trasognata semplicità scevra di frivolezza.

L’edizione italiana è stata pubblicata nel 2008 da ReNoir Comics.  
   

sabato 15 maggio 2010

Per me si va per la città dolente (...) - Caravan n.1, di Michele Medda e Roberto De Angelis

Per me si va per la città dolente, per me si va nell' etterno dolore, per me si va tra la perduta gente.


Poco meno di un anno fa di questi tempi, usciva in edicola il primo albo di Caravan. Prima di approfondire in base alle considerazioni sollecitatemi dalla rilettura dell’albo dopo la conclusione della serie qui di seguito metto quelle sparse che mi vennero allora.

Il Berardi di Julia ha introdotto la normalità nei fumetti bonelliani; personaggi qualunque che realmente vivono vite qualunque e fanno cose qualunque: Julia compresa. Certo, il condimento di indagini e analisi criminologiche è inevitabile, ma in genere la cosa non dà troppo fastidio :-). Del resto, l'avventura in primo luogo, e tutte le sue varie ancelle a seguire (il mistero, l'arcano, la fantasia variamente declinata), rappresentano il nucleo classico della lezione bonelliana.

Medda applica entrambe in modo ottimale, e così Il cielo su Nest Point risulta non solo una lettura piacevole, ma ancor più una lettura stimolante. Stimolante perché non ci sono "effetti speciali" a stimolare artificialmente la fantasia del lettore, che invece è sollecitata naturalmente dall'accorta costruzione di eventi e personaggi: credibili (credibili anche gli eventi incredibili) e accurati. Stimolante perché un gioco di ricerca di possibili riferimenti (letterarii e non) è possibile e avvincente, ma non ha nulla del pacchiano esibizionismo ad uso dei fan, dell'orgia di riferimenti referenziali (alla fin fine soltanto autoreferenziali) di troppi fumetti degli ultimi tempi. L'appassionato di fantascienza, magari sbagliando, può rintracciare lontane eco del classico di John Wyndham The Midwich Cuckoos; cogliere risonanze forse più vicine di
The Day the Machines Stopped di Cristopher Anvil; e non riesce a sottrarsi alla suggestione di The Andromeda Strain di Michael Crichton, autore molto amato da Medda.

L'apertura della serie sembra promettere una narrazione che fluirà in modo continuo, dando ragione del termine "miniserie", pur rendendo possibile il cogliere i singoli blocchi rappresentati dagli albi. Anche questa è una soluzione ottimale.

L'albo introduttivo svolge in pieno il suo compito, squadernando nelle 94 pagine tutte le premesse e, presumibilmente, i personaggi centrali della serie, o quanto meno quelli che avranno parti di maggior rilievo. Lo fa con naturalezza, dicevo, senza spingere sull'acceleratore di improbabili colpi di scena (nel senso: i colpi di scena che ci sono avvengono come fossero eventi sì eccezionali e
drammatici, ma non artificiosamente drammatizzati). Lo fa con rigore: la sceneggiatura non presenta sbavature o cali di tensione, e i differenti registri, dal drammatico al familiare alla commedia o quasi, si succedono con armonia.

De Angelis si scrolla via la noia dei suoi ultimi anni di Nathan Never e dell'ingiovibile texone che ebbe la ventura di disegnare e consegna tavole di grande realismo scenico, ricche di dettagli e che "raccontano" al lettore una storia emozionante e ricca di pathos. Tavole per le quali può far uso di una "gabbia" bonelliana liberata dalle sue rigidità in eccesso e adattata, plasticamente viene da dire, alle esigenze narrative.
A Roberto De Angelis piace far mostra di sintomatico mistero ;-)

A molti parve che in quel primo albo accadesse poco, o comunque non abbastanza. Eppure…

Qui si sono poste le premesse della storia, si sono presentati i personaggi. A voler vedere, è successo molto: un mondo che ci è stato presentato nella sua quotidianità, nella sua stabilità, nella sua realtà - che è la nostra realtà - è stato fatto a pezzi per motivi sconosciuti. La vita di quei personaggi che ci sono stati fatti veder vivere una vita ordinaria e usuale, è stata stravolta, non c'è più.Certo, se per "è successo qualcosa" intendiamo è successo qualcosa di definitivamente compiuto, allora questo non è avvenuto: non ci è stata narrata nessuna storia in modo conclusivo. Per fortuna, altrimenti avremmo la solita finta miniserie alla Brad Barron. In fondo, non c'è stato “spiegazionismo bonelliano” (…).
Pagina 64

Trascorso il tempo, terminata la serie, queste considerazioni sono in parte confermate e in parte superate. In meglio.

Rileggere l’albo alla luce della miniserie compiuta comporta l’aggiungere delle considerazioni a quelle svolte a caldo sull’albo conclusivo (http://vincenzooliva.blogspot.com/2010/05/impressioni-caldo-su-caravan-n12-i.html).

Diversi paragoni e parentele nobili sono stati avanzati in questi giorni, da Gadda e Friedrich Dürrenmatt a Hector G. Oesterheld, tutti pertinenti se se ne fa una questione di eccellenza letteraria, meno se si cercano affinità strutturali - salvo per Oesterheld: è innegabile che Caravan utilizzi, rarefacendole, le metafore di partenza e strutturali dell’Eternauta: l’evento “naturale” eccezionale; la quotidianità umana e familiare fatta a pezzi; l’incombenza della minaccia, la cui istanza ultima non si materializza mai; eccetera. Ricombinandosi, qui e lì il tutto, in una rappresentazione metaforica ma fedele della nostra realtà personale e sociale.

Taluni paragoni (Gadda e Dürrenmatt) non appaiono pertinenti se parliamo di scardinamento dei generi. La fantascienza - ammesso che Caravan lo sia - non è un genere, checché ne pensino gli ingenui: non ha regole canoniche riconoscibili né tanto meno riscontrabili o anche solo ipotizzabili. Non può esserlo, perché è una particolare modalità del narrare, tra realismo e fantastico: la fantascienza non ha regole fisse come può averne il giallo (o anche il noir). Coltivo un'idea visuale della fantascienza. Ci sono questi due cerchi, la narrativa realistica e quella fantastica, parzialmente sovrapposti. La fantascienza è quell'area di sovrapposizione. Per questo, alla fine, dico che sì, Caravan è fantascienza. Di quella specie che Harlan Ellison definisce meglio come speculative fiction, tanto per NON complicare le cose :-). I confini commerciali tra mainstream e fantascienza si sono fatti oggi più labili, ad esempio Richard K. Morgan è pubblicato in canali del tutto "normali", come Tullio Avoledo. E nessuno ha parlato di fantascienza per il ciclopico Il quinto giorno di Frank Schätzing, che è fantascienza pura. Insomma, volendo incasellare Caravan, mi pare fantascienza, e mi pare tranquillamente "commerciabile" come mainstream.

Però Caravan scardina realmente qualcosa. Scardina certe
convenzioni bonelliane che a volte sembrano ferree. A partire dalla
più ferrea di tutte. Certo, in Caravan si può dire che si viva un’avventura, pure questa non ha nulla di avventuroso. Ne mancano i
cardini sine quibus non: l'eroe; il viaggio come percorso di crescita (sì,
Davide Donati cresce - e il raffronto tra la sua figura nel primo albo e quella nell’ultimo, fatto avendo in mente il suo percorso lungo tutta la serie, evidenzia con nettezza questa crescita e l’accuratezza con la quale Medda ne ha curato ogni minimo dettaglio psicologico e comportamentale - ma il suo non è un percorso iniziatico avventuroso, è il naturale risultato delle pressioni interne ed esterne della vita
esattamente come essa si svolge). Manca il colpo di scena come ineludibile motore narrativo; manca la conclusione lineare (una storia avventurosa non può avere un finale aperto, inconcluso... a meno che non resti incompiuta come Edwin Drood ;-)); di qui forse la frustrazione di molti lettori, “drogati” in modo irrimediabile dalla necessità dell’evento che dia un significato per sé alla narrazione.
Pagina 96: la realtà collassa

Ma Bonelli vuol dire avventura. Anche un prodotto atipicissimo come i Protagonisti del west era di avventura; e la celebrata collana Un uomo un'avventura si chiamava appunto così. Qui invece per la prima volta un fumetto bonelliano non è avventuroso, pur narrando in tutto e per tutto un'avventura. Se non è scardinare questo, allora non so cosa lo sia. Come è inevitabile, questo lavoro di rimodulazione radicale della natura del fumetto avventuroso (bonelliano) ha tolto la terra di sotto i piedi a molti lettori abituali (bonelliani), spiazzandoli con il sottrar loro la tranquillità del complesso delle regole e abitudini che individuano il modo in cui sono "addestrati" a leggere il fumetto d’avventura (made in Bonelli).

Così, a miniserie ultimata emerge come il primo albo sia stato il solo a rispettare in apparenza quelle regole, ma anche come ciò non sia dovuto alla necessità di non destabilizzare sin dalla partenza quei lettori. Ne Il cielo su Nest Point osserviamo il collasso della quotidianità, e questo può avvenire solo mettendo in campo l’elemento “avventuroso”. Gli albi che seguiranno mostreranno invece, oltre al resto, la ricomposizione secondo nuove/vecchie strutture comportamentali e psicologiche di quella realtà fratturata in apertura. La natura narrativamente “sperimentale” della vicenda sarebbe stata chiara sin da subito, se i nostri occhi fossero stati abbastanza acuti.

La non individuazione di Davide come “eroe” della serie troverà conferma – sottilissima ma in linea con le modalità narrative della serie – negli albi conclusivi e in particolare nell’ultimo: Davide è il personaggio sul quale è appuntata l’attenzione dell’autore, ma non ha nulla di eroico. E’ un ragazzo di cui è raccontata la maturazione in uomo all’interno di un preciso contesto, naturale e realistico: l’”esperimento” accelera gli eventi al massimo e li rende narrativamente fruibili, ma non muta la natura del processo che coinvolge Davide, come ogni adolescente. Del resto è anche ovvio che Davide sia l’”eroe” della sua vita, come è per ciascuno di noi. Ne Il cielo su Nest Point Medda ci fornisce il suo ritratto da cucciolo ;-). Davide è un ragazzino che vive i drammi di una partita di calcio con il senso di tragedia di un adolescente. E Medda è attento non solo a rappresentarlo con occhio realistico e penetrante ma anche in un modo le cui implicazioni saranno chiare davvero solo al termine di Caravan: la natura continua della miniserie emerge in tutta evidenza proprio dalla figura del giovane Donati e dalla sua storia nella più ampia storia.

E’ interessante notare come nel primo albo, strutturalmente il più bonelliano, la posizione di Davide sia del tutto confusa con quella degli altri personaggi, mentre man mano che la sua centralità strategica emergerà Medda verrà allontanandosi sempre i più dai classici schemi del fumetto bonelliano: nel momento in cui più sembrerà affermare una connotazione “eroica” di Davide tanto più la negherà facendo del vero e proprio naturalismo in presa diretta una volta data la situazione immaginaria di partenza, con tutta la confusione e frustrazione (e sano approdo a una armonica pacificazione dei sentimenti) della sua età.

Il primo albo è solo una inconsapevole – per il lettore – introduzione a quel che verrà, siamo davanti alla Porta dell’Inferno, ma quando in finale Davide e gli altri varcheranno i Cancelli dell’Eden non sappiamo (e non sanno) se quella porta e quei cancelli sono stati varcati in un senso o nell’altro. Ciò che sappiamo – e Davide ora sa – è che indipendentemente dal verso quel cammino era da fare, perché in tutta semplicità ce lo impongono il tempo lineare della nostra vita e la complessità della realtà umana che ci circonda. Viceversa, non si cresce.

giovedì 13 maggio 2010

Il segno del sogno - Segno di gesso di Miguelanxo Prado


Prima vignetta: dettaglio di un tavolo color ocra, carte bianche stropicciate, si vede il lembo di una mappa, una tazza da caffè con manico è rovesciata e un residuo di liquido ne fuoriesce: tutti gli elementi sono sparpagliati, eccentrici rispetto al fuoco della vignetta.

Inizia così, dopo una tavola di prologo sul mare notturno in tempesta, Segno di gesso (Segni di gesso nella prima pubblicazione italiana, nel 2000, su Lanciostory, storica rivista della fu Eura Editoriale oggi pubblicata dalla editrice Aurea), uno dei punti più alti della troppo rada produzione fumettistica di Miguelanxo Prado, fumettista spagnolo e soprattutto animatore di grande talento. Poche vignette, e agli occhi di Raùl, il protagonista maschile dell’opera, appare il segno di gesso: la lunga banchina bianca di una diga frangiflutti, tutt’uno con il profilo collinoso dell’isoletta sperduta in mare sulla quale troneggia un faro abbandonato. Quella lama candida che marca l’approdo alla dimensione del possibile, confine tra sogno e realtà. Zoom, e la vignetta successiva, l’ultima della prima tavola, ci mostra un’inquadratura più ravvicinata di quella bianca linea sottile. Così, nel minimale raccoglimento di una tavola muta, dove il tono emozionale è dettato dalle inflessioni cromatiche e di luce e dalla trama fine del disegno (come per altro in tutta l’opera), veniamo introdotti in una storia dove conteranno la variazione lieve ma palpabile e piena di sottintesi dei sentimenti, la ricchezza tonale ed espressiva del colore e della pennellata che modulano arpeggi di senso profondo, il dipanarsi enigmatico di una storia che all’apparenza si regge su episodi che si accumulano senza un o una fine, ma che cela una visione coerente della vita e dell’amore, né amara né malinconica - e neppure una semplice sintesi delle due: una compresenza conflittuale di amarezza e malinconia; di dolore e speranza; di sogno e realtà. Dal naturalismo di quella prima vignetta si comincia a trapassare in una dimensione dove la realtà si confonderà con l’illusione, un’illusione dai contorni tuttavia molto materici, dove la leggerezza si scoperchia su un vigore, un turbinare di emozioni calde e appassionate.
 Miguelanxo Prado

Vi è nel racconto una tenuità tutta apparente che sotto le mentite spoglie di quella leggerezza narrativa nasconde l’abilità con la quale Prado va a scavare nell’intimo del lettore risvegliandone corde neglette o semplicemente assopite; risvegliandone la capacità di vibrare al giusto tocco. E il giusto tocco è questa affabulazione sottile e acuminata, il modo in cui egli mette a nudo senza pietà i suoi personaggi e i loro pensieri mentre al contempo trasporta il lettore in un genuino straniamento dove le coordinate temporali e spaziali perdono di significato, sostituite dai desideri inespressi e repressi che emergono alla vita, con tutto il carico di sofferenza che un parto, anche non fisico, comporta.

Più di una volta, componendo un preciso percorso di senso, Prado farà uso di vignette analoghe alla prima, vignette dove a un punto focale privo di oggetti, nudo, fa corona un florilegio di elementi minimali, quasi rifiuti. E’ in quel centro di nessuno che pare collocarsi l’isola dove approda Raùl. Topos d’eccellenza, l’isolotto non è segnato sulle mappe, e l’uomo vi arriva per caso: è quando ci perdiamo che possiamo raggiungere la libera dimensione dei nostri sogni e desideri? Sara gestisce sull’isoletta una locanda/emporio; insieme al figlio Dimas, una sorta di inquietante psicopatico che si diverte a uccidere i gabbiani dell’isola, ella rappresenta la totalità degli abitanti dello scoglio con faro. Al momento, la locanda ospita Ana, una giovane donna elegante dall’aria inquieta e umbratile. I quattro sono i personaggi principali di questo dramma onirico.
 Raùl

Le danze si aprono subito, con Raùl che si innamora di Ana appena la incontra, e lei che lo respinge quasi con fastidio. La donna è giunta sull’isola, o meglio vi è tornata, sulla scorta di un messaggio trovato graffito nella visita precedente sul candore del muro del frangiflutti; da frammenti di suoi pensieri intuiamo che esso deve essere stato scritto da un uomo di nome Raùl. Il nucleo di Segno di gesso è il ritmato rincorrersi, avvicinarsi e allontanarsi dei due.

La debolezza di Raùl dinnanzi ad Ana; il turbamento, quasi l’angoscia di Ana tormentata dall’idea del messaggio, dall’ansia di un sentimento che non riesce a realizzarsi; la presenza sensuale e animalesca di Sara che farà breccia nel momento di massima fragilità di Raùl; l’incombere della minaccia primordiale di Dimas, questo cacciatore rituale di uccelli marini, quasi lo sciamano di una religione sanguinaria. E in seguito l’irruzione della violenza esterna con l’arrivo sull’isola di una coppia di delinquenti che tenteranno di stuprare Ana e poi violenteranno Sara e picchieranno Raùl - questi sono gli elementi architettonici all’interno dei quali prende forma il rapporto Ana/Raùl. Conflitto; amore; insofferenza; attrazione: nel quadro di una realtà che resta sospesa nella bolla atemporale dell’isola, dove le date del lungo giugno di attesa di Ana vengono scandite senza mai assumere concretezza. Fino a che la realtà si sfilaccerà del tutto.
Ana

Vediamo (o forse crediamo di vedere?) Dimas vendicare la madre uccidendo i suoi due violentatori; vediamo Raùl abbandonare l’isola sulla convinzione di aver perduto ogni speranza di veder ricambiato il suo amore per Ana. Vediamo Ana, dopo la partenza nottetempo dell’uomo, partire a sua volta, nella convinzione che quell’uomo di nome Raùl non arriverà mai, e che Raùl – quello ormai fuggito via – è infine perduto. Si giunge così all’ultimo episodio della storia. Raùl torna sull’isola, convinto alla buonora di dover tentare a ogni costo di recuperare l’occasione perduta con Ana. Qui Sara dà mostra di non riconoscerlo, e di non sapere chi sia Ana, e non pare fingere; qui Raùl incrocerà, senza che neppure loro diano segno di riconoscerlo, i due violentatori di Sara che lo avevano malmenato. Qui, infine, , tra i molti altri messaggi opera di tante mani, Raùl vergherà sul foglio bianco del frangiflutti questa frase:

Ana. Tornerò il prossimo giugno e ti aspetterò. Ti amo Raùl.

Prima di tentare di dare un significato alla straniante circolarità di questa storia è forse opportuno chiedersi se abbia senso farlo. Se non sia forse una migliore scelta decidere di abbandonarsi al solo piacere del fluire del racconto, lasciarsi ammaliare dal languore del sogno messo in scena. L’una cosa non esclude l’altra. Così la storia di Ana e Raùl ci suggerisce che si possa vivere per sognare come Raùl e contemporaneamente sognare di vivere i propri desideri come Ana, senza che le due cose arrivino a coincidere mai, nei loro percorsi occasionalmente tangenti, ma mai intersecantisi o tanto meno sovrapposti. Ma è parimenti possibile individuare questo significato e disinteressarsene focalizzando l’attenzione sui risvolti puramente sensuali della lettura - è un modo anch’esso di sognare di vivere i propri desideri.

Lettura che è visuale in primo luogo.

Perché Segni di gesso sarebbe una storia del tutto differente senza il tratto impressionista del suo autore, senza le suggestioni della tessitura emozionale della narrazione scandite dai colori delle tavole, dall’alternarsi delle tonalità ora cupe, ora fredde, ora ansiogene, ora calde di vita.

Segno di gesso è stato raccolto in volume nel 2008 per i tipi della 001 Edizioni.
Raùl e Sara

mercoledì 12 maggio 2010

Impressioni a caldo su Caravan n.12: I cancelli dell'Eden

Ci sarà modo di tornare su Caravan, ampiamente; e spero di farlo partendo dal primo albo. Propongo solo qualche impressione a caldo dopo la lettura del capitolo finale della miniserie.

Il dodicesimo albo di Caravan chiude tutti i discorsi.

Il bildungsroman di Davide Donati in primo luogo. Il bambino che tirava rigori su un campo di calcio è ora un uomo maturo. E il percorso compiuto è stato descritto in modo magistrale, con una finezza psicologica e narrativa rare.
Il potere. O, davvero, meglio, il Potere. Caravan è un trattato sui modi, i tempi, le strutture e i percorsi mentali del Potere al giorno d'oggi. Quello esercitato e quello subito. In fondo le nuvole riassumono in sé il significato di tutto il complesso dei media (lo strumento privilegiato del Potere), ormai innesco di tutti i nostri bisogni, le paure, gli input mentali e perfino quelli fisici. E l'apparizione delle nuvole "vere" alla fine è ancora una volta perfettamente coerente: il pericolo mediatico diventa reale, come è per noi. Reale e inconoscibile. Reale e manipolatore. L'acquiescenza di Chester e tutti gli altri è l'acquiescenza di tutto il mondo occidentale rispetto a quel che sta avvenendo in questi ultimi decenni: la sottrazione di libertà; l'uniformazione del pensiero; la cancellazione degli spazi critici; la riduzione in servitù del lavoro. Nella Genesi è stigmatizzata la vendita della primogenitura da parte di Esaù in cambio di un piatto di lenticchie: Esaù aveva la giustificazione di essere affamato, noi uomini occidentali non l'abbiamo.
Un primo piano di Davide Donati

 Si chiude il percorso di scardinamento delle regole narrative bonelliane - che ne conferma la flessibilità per altro: la serie si conclude senza conclusione (apparente), eppure è senza dubbio il fumetto bonelliano più completo in ogni suo dettaglio; perché il più rigoroso nell'impianto "filosofico".

In una temperie nella quale ci si ammanta di fighezza perché si "contaminano i generi", Caravan si è burlato del concetto stesso di genere, facendone uso a piene mani quando gli serviva, e distanziandosi sideralmente da ogni possibile etichetta di genere per plasmare semplicemente una narrazione libera da ogni schema che non fosse l'idea che stava dietro la serie.

E ora, la prossima mini...   
Michele Medda

lunedì 10 maggio 2010

Horror vacui - "La Mantide" Julia n.140


Giancarlo Berardi deve essere un uomo serafico. Solo così si può spiegare come egli sappia controllare ogni dettaglio delle storie di Julia lasciando fluire in lentezza e compassata geometria narrativa il ritmo espositivo fino a concludere in apparenza la trama, per poi colpire il lettore con la rivelazione finale che confuta quell’apparenza. Colpire il lettore con la rivelazione finale. E’ bene non intendere in senso immediato: Berardi, qui ben coadiuvato alla sceneggiatura da Lorenzo Calza, di rado cede alla corrività di una rivelazione épatante. Il colpo, la rivelazione, non sono tesi al bell’effetto, a cogliere di sorpresa o provocare forte emozioni. Possono certamente risultare anche in questo, ma non è l’obiettivo. Ciò che conta è l’approfondimento di quella geometricità compassata, spesso nel senso di un’amarezza che coglie al disvelamento – o meglio al riconoscimento – di una realtà che è più dura da accettare di quella prospettata in prima battuta.

E’ così anche nel doppio finale di questo La Mantide. Pagina su pagina Berardi regge le fila di più di una sottotrama, giungendo non tanto a scioglierle tutte, quanto a scioglierle di conseguenza, portandole a congiungersi nel meccanismo logico voluto. E a giocare una volta di più con le convenzioni di genere, le aspettative dei lettori di poca fantasia e in ultima analisi con sé stesso e quel passato incarnato da Ken Parker, un personaggio che contemporaneamente è agli antipodi e occupa lo stesso spazio di Julia: la stessa telecamera fissa sulla nostra realtà; la differenza che passa tra gli entusiasmi energici della gioventù e la riflessività e pacatezza di una vera maturità. Il giallo e il noir sarebbero strumenti privilegiati di analisi del reale, si dice; Berardi se mai ribalta la questione e arriva a ben altra complessità: fa romanzo realistico, naturalistico; a volte dissezionando i meccanismi di genere. La “Mantide” uccide, o meglio infetta con il virus dell’HIV, ragazzi giovani, atletici, pieni di vita. Ma Herb Triumph, uno di loro suicidatosi alla notizia della sua sieropositività, risulta non esserlo mai stato: qualcuno ha taroccato il referto delle sue analisi. In un’orgia di moralismi e luoghi comuni, attribuire l’azione alla “Mantide”, ormai smascherata, è ovvio; ma il tarlo che nega a Julia Kendall la soddisfazione geometrica per la soluzione del caso si rivela corretto – anche se Julia non avrà nessuna parte attiva nella soluzione reale. La morte di Herb Triumph ha motivazioni molto più vuote e stupide della vendetta di una povera psicopatica. E tutti i pronunciamenti moralistici del primo finale vengono ora esposti a nudo nella loro vacuità e stupidità speculari a quelle degli autori dello scherzo che costa la vita al fragile Herb.
Giancarlo Berardi

Ora, né l’identità della “Mantide” né quella dei reali istigatori del suicidio di Herb ha importanza. Il punto saliente è l’irrisione del moralismo, della pronta condanna del “mostro”. Berardi svia il lettore dandogli in pasto una prova generale con la storia della vita di Maggie Blair, che nel classico crescendo di cliché è sospettata, con quel che segue, di essere il “mostro”, per poi rivelarsi innocente. Talmente stereotipato da dover insospettire. E il lettore abbocca: quando Urma Malden si rivela inoppugnabilmente la “Mantide”, è naturale attribuirle anche il crimine reputato più infame (e anche qui ci sarebbe da discutere…): appunto l’istigazione al suicidio di Herb. E Berardi ci va giù pesante con i cliché. Ma nelle pagine finali metterà alla berlina non tanto quegli stereotipi, quanto la prontezza del lettore – disattento – nel denunciarli nell’autore. Poi, con mano leggerissima, propone una realtà più agra di quella del “mostro” a tutto tondo. Ma lo farà, dopo tutti i rigiramenti della frittata, in modo che essa filtri a un lettore che si è in certo qual modo arreso, che non oppone più il proprio smaliziato armamentario di conoscenze del genere, ed è pronto ad accogliere la nuda semplicità della lezione. Ed è appunto con questa semplicità che Berardi fa a pezzi le convenzioni del genere, non puro orpello per la storia realistica, ma gioco intellettuale che vi si incastra e che va sgangherato nei suoi banali meccanismi.

A precedere questo finale multiplo c’è la polpa di una storia costruita quasi con maniacalità per giungere al risultato voluto. Una storia, tuttavia, ricca anche di digressioni che ne spezzano il ritmo permettendo a un tempo di confondere il lettore e di rendergli più agevole la lettura di una trama altrimenti troppo cupa: il tema della nuova vicina di casa di Julia è trattato con magistrale ironia e una vena di crudeltà che incanta. C’è la polpa di una galleria di personaggi schizzati a volte con rapidi tratti, ma che non vediamo dissimili da coloro che incontriamo per strada o davanti a noi nella fila all’ufficio postale. Una storia normale, per Julia, pienamente nella media…

La Mantide: soggetto di Giancarlo Berardi; sceneggiatura di Giancarlo Berardi e Lorenzo Calza; disegni di Marco Foderà e Thomas Campi – albo di Julia n.140, maggio 2010, in edicola per Sergio Bonelli Editore.