lunedì 28 giugno 2010

L’Orrore(?) oltre la soglia – Cinema Panopticum di Thomas Ott


La lettura non è, fortunatamente, un’attività sottoposta a date di scadenza; né chiaramente lo è la rilettura, come in questo caso per il volume Cinema Panopticum di Ott, pubblicato cinque anni fa dalla Fantagraphics. Una rilettura può allora stimolare nuove riflessioni, concretizzandosi esse diversamente da quanto avvenuto in precedenza e permettendo un raffronto con la memoria. Del resto le immagini del fumetto ci mostrano aspetti della realtà (o della fantasia) cangianti, diversi nelle differenti età della nostra vita. Il fumetto che rileggiamo è ogni volta diverso, è ogni volta nuovo. Il fumetto come il libro o la pellicola cinematografica, sia chiaro; è però vero che l’immagine sequenziale ma fissa del fumetto ha un’efficacia particolare nel mostrare ogni volta una sfaccettatura dimenticata o mai percepita. Nel permettere una messa a fuoco progressiva. Per questo la lettura non ha date di scadenza. Il segno di Thomas Ott, in particolare, disturba in modo continuamente mutevole. Le tavole annerite e poi graffiate, non disegnate, paiono già in prima battuta evocare quel rumore gracchiante che fa una punta dura che abrade una superficie causando il classico disagio ai malcapitati a portata di orecchie. E l’effetto visivo segue da vicino. Il livido biancore cadaverico che l’artista elvetico scava incisione dopo incisione delle sue pagine nere, si ripercuote sulla spina dorsale e i nervi del lettore. Destabilizza. Insomma, si mette nero su bianco, non bianco su nero: Ott capovolge la realtà! E quegli occhi a palla, strabuzzati, spiritati, stupiti, terrorizzati, enormi. I tondi volti equivoci fatti di quelle ragnatele di fitti, finissimi tratteggi incisi. Le labbra che appaiono tumide e tumefatte. L’umanità inquietante e patetica di Ott è un campionario di immagini grottesche. Sublimi. Un ritratto distortamente fedele della nostra specie. O fedelmente distorto, che rende anche meglio l’idea. Ott è abile come pochi a far uso delle potenzialità del fumetto. I suoi lavori sono quasi completamente privi di dialogo o testo, e Cinema Panopticum lo è del tutto - a parte insegne di cinema, prezzarii, lettere minatorie, cartelloni e cose del genere. E’ la pura forza d’impatto di quelle immagini fredde e distanti a dare una bella scrollata alla sensibilità del lettore. Che qui è sollecitata e spinta sull’orlo per lo più con un lavoro sottile e non (interamente) esplicito, ma proprio per questo ne risulta alla fine esasperata.

In Ott l’orrore non è puro. Già si mescola al grottesco visivamente; ma le correnti, sotterranee o in superficie sono di più. Egli può talvolta essere beffardo oppure surreale. E’ costantemente sadico, ma a volte questa vena si risolve in un gioco divertito seppure nero; altre volte la soluzione è crudele davvero. Regno della bizzarria, il fumetto di Thomas Ott è la chiave fantastica più estrema per penetrare l’incoerenza del reale.        
 

In data imprecisata (anni ’30? ’40? Forse primi anni ’50?) una bambina ancora non adolescente osserva da fuori un Luna Park con occhi malinconici e pieni di desiderio. I soldini in tasca sono pochi ma forse basteranno per qualcosa. E la piccola entra in quel luogo di – ottiane – delizie. Ottiane e quindi capovolte. Per qualunque giostra o gioco i cinque soldi della bimba si rivelano insufficienti, fino a quando giunge al Panopticum. Ne scosta i lembi della pesante tenda e si affaccia all’interno. Vuoto. E cinque macchine che campeggiano nella sala. Macchine cinematografiche, ciascuna con una targhetta: The Hotel; The Champion; The Experiment; The Prophet; The Girl. Un soldino per vedere. Cinque soldini per cinque macchine. Un weird tour che va a cominciare.

The Hotel. Narrativamente il primo episodio è quello che si definirebbe una “Sentinella”, un racconto cioè che nel finale opera un radicale ribaltamento del punto di vista logico e concettuale con il quale il lettore ha fin lì operato la lettura. Se siete dei cuori teneri che sobbalzano agli spoiler non proseguite. Mi dispiace per voi, tra l’altro, perché il midollo più saporito e nutriente dell’esperienza del leggere non è essere sorpresi, ma godere riconoscendo l’abilità di scrittura dell’autore. Siete ancora degli apprendisti lettori, insomma, e non siete pronti per il salto di qualità ;-). E’ questo il brano più surreale, tra l’altro. L’azione si apre con un uomo che entra nella hall di un albergo. Vuota. E nonostante le ripetute scampanellate dell’uomo continuerà a non apparire nessuno. L’uomo è stanco e decide di far da sé. Si sistema in una stanza ed esplora l’hotel, trovando una tavola riccamente imbandita e facendo così un pasto luculliano. Durante la notte si sente male e vomita, il che può essere normale con tutto quel che ha ingurgitato; ma continua a star male. Esce dalla sua stanza e vaga per i corridoi, irrompe nelle altre stanze e scopre l’orrore: cadaveri su cadaveri di persone morte nel loro vomito, i volti stravolti dal dolore e dal terrore. Si trascinerà fino all’ingresso, per stramazzare morto sui gradini esterni della pensione. L’immagine si allarga vignetta dopo vignetta, quella antistante l’albergo non sembra una pavimentazione stradale ma le piastrelle di una cucina. Si volta pagina e nell’ultima tavola campeggia una blatta intenta a cucinare: una brava massaia-scarafaggio. Ai suoi piedi – pardon zampe – la trappola per umani molesti ha funzionato. L’omaggio finale kafkiano colora di beffardo e al tempo stesso di gentile il rivolgimento surreale della prospettiva. E pare ricordarci che in fondo noi siamo gli scarafaggi di questo pianeta che andiamo sempre più infestando. Magari ci siamo già infilati dentro l’albergo e non ce ne siamo accorti.

The Champion. Il tono di Ott si fa più serio e crudele, ma il finale lascerà trapelare, anche materialmente, un raggio di luce. Un grande campione di Lucha Libre torna a casa vittorioso da sua moglie e dalla sua bambina, ma qui riceve una lettera di sfida dalla Morte stessa. L’uomo non si sottrarrà e salirà sul ring, dove riuscirà a sconfiggere la Signora in Nero. Ogni cosa ha un prezzo, però. E quello del coraggio – dell’arroganza – dell’uomo è la vita di sua figlia. La Morte non può essere battuta, tutti noi umani dovremmo saperlo, e sapere che quella dell’immortalità è un’illusione che si paga cara. Questa volta siamo però dalle parti della parabola oltre che del racconto morale, e in uno slancio di pietà Ott ci mostra di spalle nell’ultima tavola una figura incappucciata e quella che appare una bambina che si tengono per mano e osservano i raggi del sole bucare una coltre di nuvole. Pietà, o forse accettazione dell’equilibrio. Vita e morte sono un ciclo naturale, e nella loro ciclicità è la natura in equilibrio.

The Experiment. Eh, qui Ott gioca davvero con la sensibilità del lettore. C’è quel povero sfigato con dei fondi di bottiglia sul naso che non riesce a leggere neppure le lettere più grandi indicategli da un optometrista equivoco, decisamente inquietante con quel sorriso ambiguo, gli occhi da pazzo spalancati e l’evidente gioia maligna nel mentre prescrive al malcapitato cliente una cura per quella sua vista cortissima. I sospetti del lettore erano fondati. L’occhialuto talpone, inghiottite le pillole, comincerà a perdere i capelli a mazzi fino a diventar calvo senza che la vista migliori (anzi!). E la sua testa si riempie di bozzi globulari abbastanza repellenti. In qualche modo il poveretto riesce a tornare dall’optometrista, che una volta apertagli la porta del suo studio sboccia il viso grifagno in un sorriso di gioia genuina e belluina. Acchiappato l’ometto, egli afferra un bisturi e incide uno dei brutti bozzi… la testa dell’omarino fiorisce in tal modo di occhi perfettamente funzionanti, chirurgo ed ex cieco erompono in una gran risata soddisfatta e tutti vissero felici e contenti! Un’altra “sentinella” all’apparenza, ma qui prevale il sapiente mescolamento di ironia, humour macabro, gusto autenticamente gotico e weird, e straniamento surreale estremo. Il “lieto” fine aggiunge un’ulteriore nota di stranezza, un’ultima risatina dell’autore alle nostre spalle. Ma è una risata che gli si concede volentieri, perché se ne è appena fatta una liberatoria.

The Prophet. Che la fine sia vicina ce lo hanno detto innumerevoli volte sin dalla notte dei tempi. Cosa distingue un profeta da un ciarlatano? Nulla in realtà: il profeta è un ciarlatano che c’ha preso. Statisticamente, accade. Stavolta accade, e il vecchio mendicante che dopo aver completato una specie di ruota solare viene deriso e scacciato dai bar perché rompe le scatole con quel suo cartello “This is the End” sarà l’unico essere umano a essere salvato dagli alieni prima che la terra esploda polverizzandosi. Triste, certo, ma inevitabile dai tempi di Cassandra. Non c’è però dubbio che qui Ott eserciti con gioia la sua vena sadica: tutti quei grassi e compiaciuti borghesi che hanno malmenato e beffeggiato quel poveretto, magari non del tutto in sé, ora sono allegramente saltati per aria. La punizione è eccessiva? Chissà. La crudeltà verso gli indifesi è una forma particolarmente abietta di comportamento, perché appartiene a chi è troppo vigliacco per affrontare chi è più forte di lui. Certo, non sempre ci sono gli alieni, ma potrebbero esserci…

La bambina passa di sorpresa in sbigottimento ogni volta che un filmato termina e lei va di macchinetta in macchinetta deponendo il suo obolo nella fessura. Il racconto a episodi è struttura compiuta in sé; lo schema eterno delle Mille e una Notte. Il narratore racconta per intrattenere, divertire, stupire. Terrorizzare. Perché nulla come il terrore e il raccapriccio indotti da una storia sapientemente raccontataci sono in grado di stimolarci e darci piacere. E infatti la bambina non si sottrae a nessuna delle macchinette. Neppure all’ultima.

The Girl. Ott non rinuncia a un’ultima diversione. Un’ultima lezione se vogliamo. Non rinuncia, dopo averci divertito nei primi quattro racconti, a rammentarci la natura autentica dell’orrore. E’ la vicenda più breve, questa; nella quale non assistiamo a The Girl: noi osserviamo la ragazzina che guarda The Girl. Osserviamo sul volto della ragazzina succedersi lo stupore, la paura, e infine il terrore mentre la piccola, trecce al vento, fugge a gambe levate dalla sala opprimente del Panopticum che torna vuota. Perché mostri, alieni, scienziati pazzi, insetti giganti sono tutti divertenti. Noi stessi no. Noi ci facciamo così paura da non poter sopportare la vista di come siamo veramente.

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