Il postino di Hicksville porta ogni giorno ai fortunati abitanti di questa Shangri-Là del fumetto i nuovi capolavori dell'arte sequenziale. Io cercherò umilmente di parlarvene :-).
Avvertimento per i cuori teneri: OGNI recensione contiene spoiler, come è giusto che sia.
Capita talvolta di fare scoperte dove non si pensa sia più possibile farne. Non ricordo che avessi sentito parlare prima di oggi di questa serie di Robin Wood pubblicata a metà anni '90 su Skorpio (ignoro se fosse stata pubblicata anche in precedenza), e vista la prolificità del grande paraguaiano ci può stare; tuttavia non mi pare sia stata ristampata, e questo sarebbe più strano. Più strano perché senza essere un capolavoro assoluto, Il Morto è un vero e proprio concentrato di "wooditá", vi si ritrovano tutti gli stilemi dell'autore, i suoi canovacci di trama, i dialoghi caratteristici, i personaggi tipici. Il che, in effetti, è da dare per scontato per tutte le sue serie (con qualche eccezione per quelle - rare - umoristiche): Wood ha scritto in vita sua una sola storia, narrandola per centinaia, forse migliaia di racconti. Questo non sminuisce la sua grandezza di narratore: come solo un grande musicista può ricavare innumerevoli, preziose variazioni dallo stesso tema, ugualmente solo uno straordinario affabulatore può incantare centinaia di volte con lo stesso racconto.
Tornando al Morto, il personaggio appare per diversi aspetti una versione primitiva, un abbozzo di Dago, e si muove negli esotici scenari delle prime avventure del Giannizzero Nero, anche se tali scenari diventano talvolta un po' confusi laddove di volta in volta si parla di "sultano", poi di "califfo", poi ancora di "shah". Un Dago grezzo, grezzo come un diamante non ancora tagliato, più ancora del Dago degli inizi, insomma, a cui Wood assegna una di quelle missioni omeriche che così a perfezione vengono indossate dai suoi personaggi fatali. E nel compimento di questa missione, Wood gli fa vivere avventure ora atroci e ora esaltanti per nobiltà, ora sporche e spietate e ora purificatrici. Il Morto le attraversa tutte armato del suo acume e del suo senso di giustizia, del suo acciaio e del suo sarcasmo più affilato del suo acciaio: purissimo Robin Wood, come detto. Al servizio di un personaggio così elementare (in ogni senso) e delle sue storie grezze (nel senso di cui sopra) vi sono i disegni magnifici di Daniel Müller. Talvolta scultorei, talaltra molto più sintetici, quasi essenziali, sempre e comunque suggestivi ed evocativi, danno vita, carisma e mistero a un personaggio a un tempo remoto, quasi disincarnato, eppure concretamente materiale e vitale; ne popolano, con vigore e vivacità, le pagine di tutta la più colorita fauna woodiana, umana e non: ciarlatani; simpatici mascalzoni; pazzi scatenati di entrambi i sessi; vecchi strambi oppure saggi - e più sovente strambi e saggi -; fanciulle da salvare; donne indurite oltre modo dalla vita; stronzetti meschini; grandi figli di mignotta da scannare; ecc. ecc. Tutto l'armamentario con il quale, per più o meno cinquant'anni, Wood ha intessuto le infinite variazioni del suo racconto.
A tutta questa fauna Müller ha conferito energica fisicità e corporeità densa e vitalissima, ma ha saputo anche ritrarre paesaggi quasi metafisici e asciugare il suo tratto fino a dare raffigurazioni stilizzate del Morto e di taluni altri personaggi laddove la storia sembrava rarefarsi, il tempo della narrazione fermarsi in un punto dove l'attenzione del lettore doveva restare sospesa, fissata sui dettagli di un volto ieratico, di occhi magnetici, di uno scenario cristallizzato.
La lettura non è, fortunatamente, un’attività sottoposta a date di scadenza; né chiaramente lo è la rilettura, come in questo caso per il volume Cinema Panopticum di Ott, pubblicato cinque anni fa dalla Fantagraphics. Una rilettura può allora stimolare nuove riflessioni, concretizzandosi esse diversamente da quanto avvenuto in precedenza e permettendo un raffronto con la memoria. Del resto le immagini del fumetto ci mostrano aspetti della realtà (o della fantasia) cangianti, diversi nelle differenti età della nostra vita. Il fumetto che rileggiamo è ogni volta diverso, è ogni volta nuovo. Il fumetto come il libro o la pellicola cinematografica, sia chiaro; è però vero che l’immagine sequenziale ma fissa del fumetto ha un’efficacia particolare nel mostrare ogni volta una sfaccettatura dimenticata o mai percepita. Nel permettere una messa a fuoco progressiva. Per questo la lettura non ha date di scadenza. Il segno di Thomas Ott, in particolare, disturba in modo continuamente mutevole. Le tavole annerite e poi graffiate, non disegnate, paiono già in prima battuta evocare quel rumore gracchiante che fa una punta dura che abrade una superficie causando il classico disagio ai malcapitati a portata di orecchie. E l’effetto visivo segue da vicino. Il livido biancore cadaverico che l’artista elvetico scava incisione dopo incisione delle sue pagine nere, si ripercuote sulla spina dorsale e i nervi del lettore. Destabilizza. Insomma, si mette nero su bianco, non bianco su nero: Ott capovolge la realtà! E quegli occhi a palla, strabuzzati, spiritati, stupiti, terrorizzati, enormi. I tondi volti equivoci fatti di quelle ragnatele di fitti, finissimi tratteggi incisi. Le labbra che appaiono tumide e tumefatte. L’umanità inquietante e patetica di Ott è un campionario di immagini grottesche. Sublimi. Un ritratto distortamente fedele della nostra specie. O fedelmente distorto, che rende anche meglio l’idea. Ott è abile come pochi a far uso delle potenzialità del fumetto. I suoi lavori sono quasi completamente privi di dialogo o testo, e Cinema Panopticum lo è del tutto - a parte insegne di cinema, prezzarii, lettere minatorie, cartelloni e cose del genere. E’ la pura forza d’impatto di quelle immagini fredde e distanti a dare una bella scrollata alla sensibilità del lettore. Che qui è sollecitata e spinta sull’orlo per lo più con un lavoro sottile e non (interamente) esplicito, ma proprio per questo ne risulta alla fine esasperata.
In Ott l’orrore non è puro. Già si mescola al grottesco visivamente; ma le correnti, sotterranee o in superficie sono di più. Egli può talvolta essere beffardo oppure surreale. E’ costantemente sadico, ma a volte questa vena si risolve in un gioco divertito seppure nero; altre volte la soluzione è crudele davvero. Regno della bizzarria, il fumetto di Thomas Ott è la chiave fantastica più estrema per penetrare l’incoerenza del reale.
In data imprecisata (anni ’30? ’40? Forse primi anni ’50?) una bambina ancora non adolescente osserva da fuori un Luna Park con occhi malinconici e pieni di desiderio. I soldini in tasca sono pochi ma forse basteranno per qualcosa. E la piccola entra in quel luogo di – ottiane – delizie. Ottiane e quindi capovolte. Per qualunque giostra o gioco i cinque soldi della bimba si rivelano insufficienti, fino a quando giunge al Panopticum. Ne scosta i lembi della pesante tenda e si affaccia all’interno. Vuoto. E cinque macchine che campeggiano nella sala. Macchine cinematografiche, ciascuna con una targhetta: The Hotel; The Champion; The Experiment; The Prophet; The Girl. Un soldino per vedere. Cinque soldini per cinque macchine. Un weird tour che va a cominciare.
The Hotel. Narrativamente il primo episodio è quello che si definirebbe una “Sentinella”, un racconto cioè che nel finale opera un radicale ribaltamento del punto di vista logico e concettuale con il quale il lettore ha fin lì operato la lettura. Se siete dei cuori teneri che sobbalzano agli spoiler non proseguite. Mi dispiace per voi, tra l’altro, perché il midollo più saporito e nutriente dell’esperienza del leggere non è essere sorpresi, ma godere riconoscendo l’abilità di scrittura dell’autore. Siete ancora degli apprendisti lettori, insomma, e non siete pronti per il salto di qualità ;-). E’ questo il brano più surreale, tra l’altro. L’azione si apre con un uomo che entra nella hall di un albergo. Vuota. E nonostante le ripetute scampanellate dell’uomo continuerà a non apparire nessuno. L’uomo è stanco e decide di far da sé. Si sistema in una stanza ed esplora l’hotel, trovando una tavola riccamente imbandita e facendo così un pasto luculliano. Durante la notte si sente male e vomita, il che può essere normale con tutto quel che ha ingurgitato; ma continua a star male. Esce dalla sua stanza e vaga per i corridoi, irrompe nelle altre stanze e scopre l’orrore: cadaveri su cadaveri di persone morte nel loro vomito, i volti stravolti dal dolore e dal terrore. Si trascinerà fino all’ingresso, per stramazzare morto sui gradini esterni della pensione. L’immagine si allarga vignetta dopo vignetta, quella antistante l’albergo non sembra una pavimentazione stradale ma le piastrelle di una cucina. Si volta pagina e nell’ultima tavola campeggia una blatta intenta a cucinare: una brava massaia-scarafaggio. Ai suoi piedi – pardon zampe – la trappola per umani molesti ha funzionato. L’omaggio finale kafkiano colora di beffardo e al tempo stesso di gentile il rivolgimento surreale della prospettiva. E pare ricordarci che in fondo noi siamo gli scarafaggi di questo pianeta che andiamo sempre più infestando. Magari ci siamo già infilati dentro l’albergo e non ce ne siamo accorti.
The Champion. Il tono di Ott si fa più serio e crudele, ma il finale lascerà trapelare, anche materialmente, un raggio di luce. Un grande campione di Lucha Libre torna a casa vittorioso da sua moglie e dalla sua bambina, ma qui riceve una lettera di sfida dalla Morte stessa. L’uomo non si sottrarrà e salirà sul ring, dove riuscirà a sconfiggere la Signora in Nero. Ogni cosa ha un prezzo, però. E quello del coraggio – dell’arroganza – dell’uomo è la vita di sua figlia. La Morte non può essere battuta, tutti noi umani dovremmo saperlo, e sapere che quella dell’immortalità è un’illusione che si paga cara. Questa volta siamo però dalle parti della parabola oltre che del racconto morale, e in uno slancio di pietà Ott ci mostra di spalle nell’ultima tavola una figura incappucciata e quella che appare una bambina che si tengono per mano e osservano i raggi del sole bucare una coltre di nuvole. Pietà, o forse accettazione dell’equilibrio. Vita e morte sono un ciclo naturale, e nella loro ciclicità è la natura in equilibrio.
The Experiment. Eh, qui Ott gioca davvero con la sensibilità del lettore. C’è quel povero sfigato con dei fondi di bottiglia sul naso che non riesce a leggere neppure le lettere più grandi indicategli da un optometrista equivoco, decisamente inquietante con quel sorriso ambiguo, gli occhi da pazzo spalancati e l’evidente gioia maligna nel mentre prescrive al malcapitato cliente una cura per quella sua vista cortissima. I sospetti del lettore erano fondati. L’occhialuto talpone, inghiottite le pillole, comincerà a perdere i capelli a mazzi fino a diventar calvo senza che la vista migliori (anzi!). E la sua testa si riempie di bozzi globulari abbastanza repellenti. In qualche modo il poveretto riesce a tornare dall’optometrista, che una volta apertagli la porta del suo studio sboccia il viso grifagno in un sorriso di gioia genuina e belluina. Acchiappato l’ometto, egli afferra un bisturi e incide uno dei brutti bozzi… la testa dell’omarino fiorisce in tal modo di occhi perfettamente funzionanti, chirurgo ed ex cieco erompono in una gran risata soddisfatta e tutti vissero felici e contenti! Un’altra “sentinella” all’apparenza, ma qui prevale il sapiente mescolamento di ironia, humour macabro, gusto autenticamente gotico e weird, e straniamento surreale estremo. Il “lieto” fine aggiunge un’ulteriore nota di stranezza, un’ultima risatina dell’autore alle nostre spalle. Ma è una risata che gli si concede volentieri, perché se ne è appena fatta una liberatoria.
The Prophet. Che la fine sia vicina ce lo hanno detto innumerevoli volte sin dalla notte dei tempi. Cosa distingue un profeta da un ciarlatano? Nulla in realtà: il profeta è un ciarlatano che c’ha preso. Statisticamente, accade. Stavolta accade, e il vecchio mendicante che dopo aver completato una specie di ruota solare viene deriso e scacciato dai bar perché rompe le scatole con quel suo cartello “This is the End” sarà l’unico essere umano a essere salvato dagli alieni prima che la terra esploda polverizzandosi. Triste, certo, ma inevitabile dai tempi di Cassandra. Non c’è però dubbio che qui Ott eserciti con gioia la sua vena sadica: tutti quei grassi e compiaciuti borghesi che hanno malmenato e beffeggiato quel poveretto, magari non del tutto in sé, ora sono allegramente saltati per aria. La punizione è eccessiva? Chissà. La crudeltà verso gli indifesi è una forma particolarmente abietta di comportamento, perché appartiene a chi è troppo vigliacco per affrontare chi è più forte di lui. Certo, non sempre ci sono gli alieni, ma potrebbero esserci…
La bambina passa di sorpresa in sbigottimento ogni volta che un filmato termina e lei va di macchinetta in macchinetta deponendo il suo obolo nella fessura. Il racconto a episodi è struttura compiuta in sé; lo schema eterno delle Mille e una Notte. Il narratore racconta per intrattenere, divertire, stupire. Terrorizzare. Perché nulla come il terrore e il raccapriccio indotti da una storia sapientemente raccontataci sono in grado di stimolarci e darci piacere. E infatti la bambina non si sottrae a nessuna delle macchinette. Neppure all’ultima.
The Girl. Ott non rinuncia a un’ultima diversione. Un’ultima lezione se vogliamo. Non rinuncia, dopo averci divertito nei primi quattro racconti, a rammentarci la natura autentica dell’orrore. E’ la vicenda più breve, questa; nella quale non assistiamo a The Girl: noi osserviamo la ragazzina che guarda The Girl. Osserviamo sul volto della ragazzina succedersi lo stupore, la paura, e infine il terrore mentre la piccola, trecce al vento, fugge a gambe levate dalla sala opprimente del Panopticum che torna vuota. Perché mostri, alieni, scienziati pazzi, insetti giganti sono tutti divertenti. Noi stessi no. Noi ci facciamo così paura da non poter sopportare la vista di come siamo veramente.
Neppure quell'ultimo guizzo di tragedia che avrebbe potuto – anzi dovuto – dare, se non altro, una coloritura autenticamente drammatica alla storia, si concretizza in qualcosa di narrativamente robusto. Intendiamoci, I ribelli di Cuba non è mica un disastro. Però non è neppure un lontano parente di Patagonia, l’albo gigante di Tex dello scorso anno: non è nulla più del minimo sindacale per arrivare alla sufficienza.
La storia, che parte lentissima, risulta francamente noiosa per prolissità in tutta la parte iniziale sul suolo americano. Viene in parte risollevata dalla presenza in scena di un Tex tonico, sveglio e reattivo che compensa bene le lungaggini del soggetto e i fallimentari salti mortali boselliani per vivacizzarlo. E a onor del vero è il Tex visto in azione lungo tutto il corso dell’albo a rappresentare senza dubbio la nota più positiva. Forse anche per l’influsso nolittiano che può aver travalicato il mero soggetto, certe sbruffonerie tipiche dello stile di Mauro Boselli, e in questi ultimi anni scivolate in un manierismo fastidioso, sono assenti, e sulla scena troviamo un ranger tosto e diretto che non si perde in vanaglorie.
Sergio Bonelli/Guido Nolitta insieme al suo fratello cartaceo
Detto ciò, la sequenza sul continente poteva onestamente essere compressa in un terzo dello spazio, in favore di un ampliamento della parte assegnata all'unico personaggio che tenga botta a un Tex così brillante: Rayado. Nolitta e Boselli hanno creato uno splendido pazzoide, magnificamente caratterizzato, e l’hanno liquidato il più in fretta possibile. Bah. Tutto perché poi c'era da liquidare nel finale di storia il colonnello spagnolo, un personaggio così loffio da non risultare neppure davvero sgradevole – tanto meno detestabile. E’ fin troppo evidente che il colonnello Agreda è una figuretta di cartone, e non ci si può disgustare di un personaggio così finto. Il racconto de I Ribelli di Cuba si presenta in tal modo squilibrato: si parte con quel prologo sfibrante, con Montales che gigioneggia quasi come un cretino (senza il quasi). Okay, che Montales sia della partita è logico, ma il solo motivo logico per l'assenza quanto meno di Carson è che le idee per manovrare qualche personaggio in più scarseggiassero e si è deciso di mantenere un profilo il più basso possibile. Sicuramente gli autori saprebbero indicare dozzine di motivi per i quali non è così, ma l’impressione è comunque netta. Si prosegue poi con il più bolso scontro che io ricordi tra Tex e i fanatici del vudù; scontro riscattato dalla breve sequenza di un favoloso Tex politicamente scorretto che fa a pezzi la baracca di Maitre André, l'hungan, vituperando lo stregone in modo vigoroso e saporito : –)).
Mauro Boselli
Tex e Montales approdano quindi a Cuba. Resta da dire che lo fanno per salvare un ragazzino, figlio di un importante uomo politico americano amico di Montales, fatto rapire per conto di alcuni guerrilleros per l’indipendenza di Cuba dalla Spagna. Si scoprirà che responsabile è il gruppo di Rayado (la sola mela marcia in un canestro di pomi virginali. Glissiamo). Nella grande isola caraibica tutti hanno la profondità di uno quei materiali spessi un micron o giù di lì che la moderna tecnologia ha reso disponibili. Il tenente de Zuñiga è esattamente il cretino esaltato che serve per fare la parte del cretino esaltato. Il colonnello Agreda è proprio l’ultranazionalista coglione scannacristiani che sembra, e lo sarà fino all'ultimo, senza evadere mai dal cliché: poiché infatti personaggi del genere sono solitamente dei vigliacchi, morirà da vigliacco. Di personaggi così la saga di Tex è naturalmente piena, e infatti solo quelli che hanno qualcosa più del cliché restano memorabili: il resto è non a caso carne da cannone nelle storie minori. All'Avana il solo personaggio un minimo interessante è il doganiere cubano che accoglie Tex e Montales e dura lo spazio di qualche vignetta. Pardon, all'Avana c'è anche quella carognetta che tira il pacco a Tex e Montales attirandoli nell’imboscata di de Zuñiga. Poi si va avanti. Alonso è proprio Alonso, ha tutte al loro posto le cosine indicate nel manuale: nobile guerrillero, un po' crudele, idealista, grande cuore eccetera eccetera. Ed elettrocardiogramma del lettore piatto. Anche Don Rafael è Don Rafael. E' uno schiavista ma è ovvio che in cuor suo è un uomo dal nobile cuore e che i suoi schiavi li libererà. E infatti li libererà. Perché? Perché è un uomo dal nobile cuore. E il cerchio così si quadra: poteva non essere così l’amico di un amico di Montales? Ah, no: un uomo così deve avere una moglie altrettanto così che sottolinei per il lettore distratto quanto sia repellente il colonnello Agreda (che, poveraccio, è talmente scontato e piatto che ben poco riesce a repellere chi legge). E in modo che il cattivo colonnello Agreda gliela possa accoppare insieme a un bel po' degli schiavi. Sempre con l'accortezza di non provocare movimenti dell'ago dell'elettrocardiografo applicato al pazien... al lettore. Con tutto ciò, ripeto, la storia non è un disastro, è tranquillamente sufficiente – pur non ben bilanciata, le parti puramente avventurose e di battaglia si leggono, e visualmente si gustano, con piacere. E poi basta lasciar riaffiorare i ricordi dei disastri nizziani per lanciarsi in selvagge danze vudù per la gioia.
E' una storia semplice ed esile, non ci sono grandi emozioni umane, ecco cos’è. Onestamente non si può palpitare per la sorte di Matt, un ragazzino smorto figlio di un padre pesce lesso (e le personalità prive di vita dei due si riflettono sul personaggio di Etienne, il loro maggiordomo, i cui tormenti e colpe perdono di realismo ed efficacia nel momento in cui li si relaziona a padre e figlio).
Una lussureggiante tavola di Suarez
Però il movimento c'è, una volta sul suolo cubano, e Boselli e Suarez lo raccontano molto bene. E poi, in quelle poche pagine in cui appare, c'è Rayado. E quello è un personaggio ben riuscito. Un pazzo così grezzo (nel senso positivo, il personaggio ha un esplosivo che di primordiale), e al contempo uno stregone così potente e inquietante non è merce abituale, tanto più negli ultimi vent'anni della svirilizzazione nizziana di Tex e del suo universo narrativo. Nel caso di Rayado la rappresentazione del male è così vivida che la sua assenza di reale profondità è un punto di forza e una scelta sacrosanta. E del resto un contraltare è ottimamente fornito da suo fratello Dada: in poche, e forse comunque troppo rapide battute Boselli riesce in ogni modo a fornirne un ritratto essenziale ma efficace.
Autoritratto del disegnatore cubano Orestes Suarez
A onta di certe pose un po' troppo scultoree e di un Tex che nelle sequenze iniziali a tratti non è troppo convincente nel volto, Orestes Suarez compie un lavoro sontuoso. Sontuoso in senso primario, proprio perché ricco, dettagliato e scenograficamente incisivo. I tipi umani, il panorama urbano e la natura della sua Cuba sono vivi e reali, e sicuramente danno una gran mano alla storia per risultare comunque piacevole. Però, reso il dovuto omaggio al lavoro di Suarez, questa è una gradevole storiella, non di più.
I ribelli di Cuba, Albo Speciale (Gigante) di Tex n.24 – Soggetto di Guido Nolitta / sceneggiatura di Mauro Boselli / disegni di Orestes Suarez
Non ce ne accorgiamo, ma sono tra noi. Non ce ne accorgiamo perché sono così simili a noi. O forse, ed è una prospettiva che dovrebbe agghiacciare il sangue nelle nostre vene, noi siamo così simili a loro. I personaggi di Red Meat, il fumetto di Max Cannon che in Italia è presentato settimanalmente sulle pagine di Internazionale.
Siamo simili a loro ma non abbiamo il loro coraggio di vivere la follia e la nostra vera natura apertamente, con tutte le sue aberrazioni. E’ probabilmente un bene, perché in caso contrario la nostra realtà (mentale) collasserebbe, proprio come è una realtà collassata, ovvero privata di punti di riferimento, la realtà di Red Meat.
Più correttamente, il mondo e la vita che vediamo nelle strip di Max Cannon sono il nostro mondo e la nostra vita privati delle maschere e degli abbellimenti delle convenzioni sociali e dell’ipocrisia di tutti i giorni. Sono i pensieri che fatichiamo a confessare anche a noi stessi; e anzi, che più probabilmente nascondiamo soprattutto a noi stessi, relegandoli quanto più in fondo possiamo nella nostra psiche.
Il mondo del Lattaio Dan, di Ted, di Karen, di Earl – per citare solo alcuni dei personaggi principali – è il nostro mondo osservato attraverso le lenti di occhiali magici che rivelino la realtà come essa è e non come appare. Un mondo che a noi, immersi nelle illusioni rituali del quotidiano, appare surreale. Come i dialoghi tra i personaggi, attraverso i quali Max Cannon ci guida per mano alla scoperta della realtà psicotica e psicogena del nostro mondo. E’ un corso severo di rieducazione, però salutare ;-).
La cifra surreale racchiude l’intera creazione artistica di Red Meat, questa “Carne rossa” disegnata in uno spartano, acido bianco e nero. Le immagini bloccate in una fissità da vecchie istantanee trasmettono un sottile disagio; mentre l’assenza quasi totale di sfondi concorre a creare l’atmosfera di completa sospensione della realtà, che rivela la realtà più nitida, di più fine risoluzione che giace al di sotto della ricopertura del mondo attorno a noi. Red Meat si spoglia di tutti gli orpelli dell’arte del fumetto per mostrarne il cuore: la trappola che abbiamo costruito per noi stessi, quella struttura sociale in cui costringiamo a vivere l’animale solitario che siamo, e la natura di alienati che ne abbiamo ricavato.
Le caratteristiche del disegno di Cannon e l’abilità chirurgica di cui si serve nelle costruzioni verbali che mette in bocca ai suoi personaggi potrebbero far pensare a un maggior peso della componente testuale nell’economia del fumetto, ma non è così. I dialoghi scritti da Cannon, come i soliloqui (se al minimo Earl è inquietante, nelle sue strisce più riuscite può essere davvero destabilizzante), sono amplificati nel loro effetto sul lettore dallo stile grafico adottato. La realtà del lettore (quella realtà al quale è abituato e che per lui è una calda coperta di Linus) si frantuma perché Max Cannon la priva dei suoi elementi vitali e cognitivi, la svuota, letteralmente, dei suoi oggetti e del movimento; per poi riconfigurarla riempiendola di uno spazio che è vuoto e quindi non offre elementi di distrazione (né appigli per la sanità mentale) e che costringe il lettore a focalizzarsi in modo completo (e ossessivo) sulla realtà delle figure con cui l’autore integra il suo fumetto: i suoi personaggi in fermo immagine nella cui follia e incontinenza verbali si sostanzia l’alienazione di quello spazio deserto. Essi sono dunque il software umano di questo hardware fisico privato della sua materia e sintonizzato su quella più fine realtà soggiacente cui accennavo prima.
In oltre vent’anni la striscia ha ospitato numerosi personaggi, ma quelli principali e più ricorrenti sono un ristretto manipolo scelto. Un campionario di personalità distorte, e per questo “perfettamente” inserite nella società e nel lavoro. Essi sono tra noi e sono noi, solamente non portano la maschera che portiamo noi addosso.
Ted Johnson, che può essere considerato il più importante, è una sorta di feticista con propensioni sadiche, ma questo non gli impedisce di avere moglie e un figlio, che Ted educa in modo non esattamente montessoriano; del sadismo di Ted fa le spese di frequente il povero Johnny Lemonhead, ingenuo e cortese esemplare di timido, vittima quintessenziale della malizia altrui in virtù della deformità fisica illustrata dal suo stesso nome, e il solo personaggio della striscia che ci appaia come un “buono”. Sin dalla rappresentazione grafica che Cannon ne dà, con quegli occhi bulbosi e schizzati, Earl si presenta invece come il personaggio emblematico di Red Meat: gli apologhi sconnessi, disturbanti, spesso francamente schifosi che Cannon gli mette in bocca sono il paradigma della nostra realtà decostruita e ricostruita secondo le coordinate del fumetto; la solitudine alienata di Earl è la nostra insana solitudine interiore indotta da una società paranoica. Il Lattaio Dan è un genuino esemplare di sociopatico; sono da antologia i suoi confronti con Karen, una bambina che angaria continuamente (e che ricambia odiandolo di cuore e alla bisogna dimostrandosi molto “creativa” nel suo odio) spingendosi ad ucciderle gli animali domestici (non che ad altri personaggi vada meglio).
Tra i personaggi minori, oltre al già citato figlio di Ted, William, è da ricordare almeno Papa Moai, una sorta di superiore essere che vive tra le dimensioni, ma che nella realtà sembra avere interessi e bisogni più terra terra.
Neil Swaab lo ha creato come orso di pezza; poi Mr. Wiggles ha fatto carriera, tanto che per un certo tempo ha anche svolto le funzioni di Dio mentre questi si prendeva un periodo di riposo. Certo, il suo metodo di lavoro era opinabile e ha quasi mandato i cieli a puttane mentre li trasformava nel mega–party più frenetico che si sia mai visto.
La strip dell'osceno orsetto può apparire feroce, la sua satira intemperante oltre ogni limite e decenza. E feroce lo è per davvero. Ma la ferocia di Swaab nasconde, neppure troppo, un profondo amore per quell’umanità così violentemente irrisa da Mr. Wiggles. La cui satira non è eccessiva: è satira. Ovvero è tanto migliore quanto più risulta offensiva, smodata, maligna: deve essere una lente deformante, e perciò volgere in caricatura e in ridicolo dei tratti reali, ma altre regole non ce ne sono. Se una striscia comica a fumetti ci offende può essere salutare, a patto di ricercare spassionatamente le cause di quel sentimento e verificare gli schematismi, i preconcetti e le rigidità in eccesso che limitano il nostro raziocinio. A patto di comprendere che condurci infine a ridere di quell’offesa è la migliore arma che la satira possa metterci in mano per superare tali limiti e sviluppare una vera libertà di pensiero.
La copertina della prima raccolta italiana delle strisce
Che le strisce dell’orso svelino anche un atto d’amore non lo si vede riflesso solo nella presenza dell’autore nel fumetto a fare spessissimo da spalla – e vittima – a Mr. Wiggles. Il Neil Swaab di china che espone con candore i piccoli grandi tic, fobie, entusiasmi da fan, e più in generale il paradigma completo della vita di un nerd sfigato, è ritratto non con autoindulgenza ma con tenerezza e ironia che travalicano l’autobiografia per farsi ritratto generazionale e culturale. Questo affetto non inficia mai la lucidità di Swaab nell’analizzare le manie e le debolezze del personaggio né la vera e propria brutalità con cui gliele mette alla berlina. Ma accanto a lui e a Mr. Wiggles troviamo ancora tutta una umanità per la quale l’autore di carne dimostra lo stesso affetto. Per quanto possa sembrare paradossale, questa premura di Swaab emerge proprio dalla rappresentazione che di questa umanità dà: laida, infantile, ottusa, drogata, pervertita, sciocca, ignorante, frivola, fuori di testa, sconnessa dalla realtà. Emerge perché Swaab ne mostra al contempo l’indifesa ingenuità, la bizzarra sincerità di fondo, la goffaggine, la solitudine e il bisogno di essere amati che essa genera. Emerge anche perché Swaab opera una riuscita fusione grafica di tratto underground e rotondità nel segno, scelta che riesce a esaltare entrambi i registri stilistici coinvolti: l’empatia con i personaggi e la benevolenza verso di loro; e il parossismo di violenza, verbale e fisica, che gli scarica addosso.
Poi c’è lui, l’orso. Se non fosse irresistibile sarebbe il candidato che tutti voteremmo per l’internamento a vita in un manicomio criminale. O forse è più corretto dire che è irresistibile proprio perché è questo candidato ideale. Citate una perversione sessuale (preferibilmente con risvolti penali) e lui ne è affetto. Citate una sostanza psicotropa in qualche modo assumibile e lui sicuramente ne ha fatto o ne fa uso (o ne farà). Di Mr. Wiggles è la mano che trovandovi in difficoltà vi tirerà a bordo della zattera di un naufragio: perché farete da scorta di proteine. Insomma il personaggio è questo. E’ un bastardo. Sarebbe un bastardo se non fosse irresistibile. O forse è così irresistibile perché è un tale bastardo. Però un bastardo positivo (lui correggerebbe con una risata: sieropositivo). Positivo perché assolve in pieno e al meglio quella funzione satirica di cui dicevo più sopra, portando all’ingrandimento massimo la lente deformante sotto la quale Swaab pone comportamenti (non solo) sessuali, abitudini, idee di noi tutti esseri umani, e rivelandoceli per quelle follie della nostra psiche che spesso sono. La ferinità di Mr. Wiggles ci permette di mantenere un’ultima illusione di non identificazione con lui, necessaria a che la frustata della satira non si volga in disperazione. Sappiamo che si tratta appunto di un’illusione, ma poter fingere che non sia così ci permette di ridere e riflettere senza cedere al pessimismo. La miglior satira non si esaurisce in quel compito destruens che le è proprio, ma stimola appunto l’analisi della realtà mostrandola più nuda di come appare ai nostri occhi velati da pregiudizi, autocommiserazione o altro.
In genere l’eccessività di personaggi come Mr. Wiggles è funzionale alla necessità di permettere ai lettori di sentirsi migliori di loro e poter abbandonarsi alla risata (magari con un pizzico di nervosismo sotterraneo). E ciò sembra evidente con Mr. Wiggles: è difficile immaginare di essere peggiori di questo ubriacone rotto davvero a qualsiasi esperienza sessuale e con sostanze di ogni genere; un sociopatico, psicopatico, coprolalico. Ma in realtà l’orso non scende neppure in competizione con i suoi lettori (a parte che lui ovviamente vuole essere peggiore di tutti): l’estremizzazione verbale e comportamentale impressa da Swaab è molto più funzionale a fare del personaggio la fotocamera del lettore sul mondo. Un mondo rappresentato più marcio di come forse è, ma che rappresenta il concreto pericolo del nostro futuro, un futuro sempre più vicino.
La copertina della seconda raccolta italiana
Le strisce di Mr. Wiggles appaiono ormai da lungo tempo sul settimanale Internazionale, e in anni più recenti l’editore della rivista, Fusi Orari, ne ha inoltre proposto due raccolte, nelle quali hanno trovato posto anche alcune strip che erano state ritenute troppo “forti” per la pubblicazione su Internazionale. Ah, mondo! ;–)
Presumibilmente è un giorno di inverno del 1971 quando questa tavola mi provoca un vero e proprio choc culturale. Be', non esattamente QUESTA. Lessi la storia del “Ventino Fatale”, impattando nella sua prima tavola, sul grande volume cartonato mondadoriano Io Paperino, il secondo della galleria dedicata ai protagonisti disneyani e primo dei Paperi, e dunque del grande Carl Barks (il precedente ovviamente era per Sua Maestà il Topo). In quel volume che il tempo e le infinite ripetute letture (soprattutto le infinite ripetute letture) hanno sbrindellato e fatto a pezzi, e ormai sostituito da un'edizione più recente e in miglior salute, la tavola era rimontata e accorpata con la successiva per riempire le grandi e sontuose pagine del libro. Ma lo choc era dato tutto dalle prime cinque vignette, in primo luogo da quella quadrupla iniziale; le altre si vedeva che erano già parte di un qualcosa di diverso: la storia entrava nel vivo dopo la terribile presentazione. Leggermente diversa era anche la traduzione, a partire dal titolo (Paperino e il ventino fatale). Diverso era il nome del luogo attraversato dai Tre Paperini: Shacktown era il Sobborgo Agonia. Se oggi all'uomo adulto che ha potuto rileggere, con immutato e rinnovato piacere, una storia tanto amata, la scelta operata nella ristampa integrale dell'opera barksiana nei volumi allegati al Corriere della Sera appare corretta e la migliore, sia concesso di dire che quella scelta di traduzione di tanti anni fa fu perfetta: nel 1971, a un bambino, Shacktown avrebbe detto nulla; Sobborgo Agonia si integrava nelle, e integrava, con naturalezza ed esattezza, le immagini disegnate da Barks.
Carl Barks
Nel 1971 l'universo disneyano non era ancora popolato di storie sterilizzate e attente a non offendere la coscienza in formazione dei pargoli (non offendere la coscienza in formazione dei pargoli=evitare accuratamente di proporre riflessioni stimolanti); tuttavia era pur sempre un regno per l'infanzia, dove in genere - in genere - gli aspetti più crudi della vita erano presentati con cautela. E in ogni caso, pur leggendo allora Topolino da più di metà della mia vita, non potevo vantare che una limitata esperienza di quattro anni di storie :-). Con il Sobborgo Agonia, con i suoi volti stanchi della vita, tristi e provati - volti quasi completamente umani, dove la ferinità antropomorfizzata è salvaguardata solo dalla macchietta nera dei nasi, ma volti in tutto riconoscibili come umani – Barks provocava in quel giovane lettore uno choc altamente salutare, costringendolo a guardare la realtà, seppure magicamente trasfigurata dalle sue capacità descrittive grafiche e narrative. La miseria di quegli esseri umani era lì, era visibile. Sui loro visi scavati, nel luridume nero che respinge ai margini il candore della neve natalizia, in quei barattoli impilati che sono tutto il gioco e il divertimento di un bambino nato per patire. E che debba patire Barks ce lo mostra senza finzioni: è la poesia che egli sa mettere in quelle immagini, dove il dolore traspare con nitidezza ma da una mano delicata e compassionevole, a rendere sopportabile
quello che si vede. Sopportabile ma vero. Quasi insopportabile quella donna che nella vignettona iniziale fa per girarsi a osservare i Tre "grassi porcellini" transitare la loro agiatezza (e sono i nipoti di Paperino!) per il fondo dissestato e lercio della sua strada.
A introdurre dentro Shacktown/Sobborgo Agonia sono i Tre Paperini come si diceva. Non per caso. Non solo perché Qui, Quo e Qua sono coetanei di quei bambini stracciati e dei lettori cui in prima istanza si rivolge la storia, e quindi in grado di fornire il massimo contrasto con quelli e la massima identificazione in questi. I Tre Paperini sono forse il più enigmatico dei personaggi principali dell'universo disneyano, ma nelle più abili mani del Maestro dell'Oregon la loro triplice essenza, il loro triplice replicarsi uguali l'uno nell'altro (e alla bisogna il loro occasionale differenziarsi) permette di mostrare in forma dialogica l'intima riflessione del personaggio, e perfino un conflitto interiore può venire esteriorizzato con naturalezza. Qui, Quo e Qua raccontano al giovanissimo lettore il suo stesso disagio, glielo sbattono quasi in faccia, esortandolo ad aprire gli occhi, ad avere coscienza di sé e del mondo, a esercitare le proprie capacità critiche e di osservazione. Per questa sua capacità di parlare con la forza e la delicatezza della poesia autentica Barks appare come un educatore formidabile. Formidabile perché non ha mai rinunciato né a divertire né a pungolare i suoi giovani lettori. E questo suo anziano lettore è sempre più affascinato dalla sua lezione.